Nacque come guerriero

Per riandare alle origini del buddhismo bisogna risalire molto lontano nel tempo, fino al VI secolo prima di Cristo. Fu quello un secolo in cui, per singolari coincidenze della Storia, l’Umanità partorì alcuni fra i suoi più elevati spiriti. Sugli altopiani iranici stava predicando Zarathustra. In Cina impartivano i loro insegnamenti Lao-tzu e K’ung-fu-tzu, che noi conosciamo con il nome di Confucio. Il Deutero-Isaia profetava dalla “cattività babilonese” e Pitagora a Samo elaborava il suo innovativo pensiero.

Nell’anno 563 a Kapilavatthu, luogo che secondo gli archeologi indiani corrisponde a Piprava posta a 200 chilometri da Benares mentre secondo i loro colleghi nepalesi è la attuale Tilaurakot in Nepal, nacque un bimbo cui venne dato il beneaugurante nome di Siddhartha, cioè “colui che ha raggiunto lo scopo”, mentre il suo nome di famiglia era Gautama, “discendente di Gotama”, un mitico sapiente del periodo vedico. Il padre si chiamava Suddhodana, era un nobile guerriero che apparteneva alla casta dei kshatriya e che, per conto del Raja del Kosala, governava sulla tribu dei Sakya cui egli stesso apparteneva. Per tale ragione il figlio venne in seguito chiamato Sakyamuni, il “saggio dei Sakya”. La madre portava l’inquietante nome di Maya, cioè “Illusione”.

La tradizione agiografica ha colmato l’evento della nascita di particolari favolosi fra i quali il solo che potrebbe avere un qualche fondamento è quello relativo alle profezie fatte in occasione della nascita di Siddhartha. La più conosciuta è quella che narra di un asceta, lo rishi, Asita che scese dal suo eremo dei monti e venne a esaminare il bimbo in cui trovò i 32 segni del “Grande Uomo”. Profetò dunque che sarebbe divenuto un “Illuminato”, un Buddha, che avrebbe predicato a tutti la Verità. Il quinto giorno dopo la nascita, gli otto brahamani di corte celebrarono il rito dell’imposizione del nome e anche loro, dopo averlo esaminato, presagirono che il bimbo sarebbe diventato un Santo ma, aggiunsero, avrebbe potuto anche diventare il più potente dei sovrani della terra. Il padre Suddhodana, che era un kshatriya, si aggrappò a questa eventualità perché mai avrebbe voluto per il figlio un destino diverso da quello di un grande condottiero. La madre era nel frattempo morta e il piccolo venne affidato alla sua sorella Mahapajapati che era anche la seconda moglie di Suddhodana.

La tradizione vuole che il re ponesse ogni cura affinché il figlio fosse educato nel rispetto delle più rigorose consuetudini della casta guerriera. Su ciò, ovviamente, sono fiorite mille leggende che parlano di sfavillanti palazzi ove il giovane viveva una aurea reclusione voluta dal padre per evitare che qualsivoglia contatto con il mondo potesse turbarlo avviandolo sulla via della meditazione e della....santità che mal si addicevano a un futuro guerriero che sarebbe dovuto diventare il conquistatore del mondo.

Si narra che crebbe bello e fortissimo e che ottenne la mano della principessa Yasodhara sgominando tutti gli altri pretendenti in un torneo di corsa a cavallo e di tiro con l’arco, quasi come un novello Rama. Le nozze furono celebrate con una sfarzosa cerimonio e gli sposi ricevettero in dono ben tre palazzi in cui abitare secondo il clima delle stagioni.

Tutto ciò mal si può conciliare con il fatto che Suddhodana stesso non era un Maharaja, Grande Re di un vasto regno, ma era solo il signorotto di una tribu di montanari. In ogni caso, Siddhartha visse la vita di un fortunato principe allietata anche dalla nascita di un erede, il figlio Rahula.

Poi, giunto all’età di 29 anni, abbandonò tutto: palazzo e famiglia, e si votò alla vita ascetica. Cosa accadde ? Anche per questo evento sono fiorite le narrazioni. La più nota e diffusa, ma anche la più fantasiosa, è quella che racconta come Siddhartha avesse vissuto la sua esistenza sempre all’interno dei dorati palazzi in cui lo teneva rinchiuso il padre. Un giorno però volle uscire a bordo del suo lussuoso carro e dopo breve vide un uomo dal dorso piegato dalla vecchiaia, ne scorse poi un altro morente a terra e un altro ancora, ormai morto, sul cui corpo banchettavano gli uccelli predatori. Scorse infine un uomo dal cranio rasato che contemplava la scena, immobile e impassibile: era un asceta che aveva lasciato il mondo e viveva nelle foreste. Si dice che fu a quel punto Siddhartha che capì che solo la vita di rinuncia dell’asceta poteva combattere il dolore della vita: la vecchiaia, la malattia e la morte.

Decise allora di abbandonare tutto, ma anche sul modo in cui lo fece sono poi fiorite infinite leggende rispetto alle quali, dubitando sulla attendibilitá di tutte, vale la pena attenersi a quelle che più frequentemente compaiono nella iconografia religiosa. In tal modo potremmo anche comprendere il significato di tanti bassorilievi, dipinti e statue che compaiono in pagode e monasteri buddhisti. Anche per noi il racconto assume così i dolci toni di una pia leggenda. Siddhartha, presa la sua decisione, lasciò nel pieno della notte il palazzo in cui si consumavano gli ultimi fuochi di una scatenata festa.

Partì accompagnato solo dal suo amico e auriga Chandaka: fu la Maha niskramana, la “Grande partenza”. Giunto al limitare della foresta, con la spada si recise i lunghi capelli e cambiò le proprie ricche vesti con quelli di un semplice cacciatore cancellando così tutti i segni esteriori della sua precedente esistenza. Affidò poi il suo cavallo a Chandaka e, senza voltarsi indietro, si inoltrò nella selva. Iniziava la sua vita di samana, un asceta errante.

Andò in cerca di un maestro che lo conducesse sulla via della Verità e il primo fu Kalama, da cui apprese la padronanza delle tecniche di meditazione, cercò poi un nuovo guru che fu Ramaputra. Gli insegnamenti ricevuti non lo avevano però fatto procedere in nulla nel suo cammino di ricerca della liberazione dal dolore e decise quindi di ritirarsi in totale solitudine nella profondità della natura per praticare le più rigorose tecniche di ascesi e rinuncia. 

 Si unì a altri cinque asceti e trovarono rifugio in un boschetto, in un luogo oggi chiamato Bodh-Gaya, sulle rive del fiume Neranjara. Per sei anni si sottopose alla più severa e quasi inumana disciplina, allo scopo di annullare in se quelle energie vitali che alimentano la sete di vivere e quindi la “Illusione”. Ormai era ormai ridotto solo più a un nudo e irsuto scheletro, sulla soglia della morte, quando prese coscienza che uccidendo il corpo non distruggeva in se la brama di vivere ma annullava solo la capacità mentale di eliminare razionalmente gli inganni della “Illusione”. Capì così che doveva continuare a vivere e la sorte venne in suo aiuto. Una giovane donna era venuta nel boschetto per portare la propria offerta a un albero sacro, ma, colpita dai tratti scheletrici del samana, offrì a lui la sua ciotola colma di riso. Siddhartha divise il riso in quarantanove parti e decise di mangiarne una al giorno per sette settimane. Giunse poi un uomo in punto di morte e fece dono a Siddharta del proprio abito bianco di lutto e della sua bisaccia e del rasoio. Siddhartha si immerse allora nelle acque del Neranjara e si nettò della crosta di fango e lordure che lo ricopriva quindi si rase capelli, barba e peli del corpo. I cinque asceti, che per anni avevano con lui sopportato ogni privazione, furono inorriditi e lo fuggirono. Lui si assise sotto un albero di ficus religiosa e iniziò la sua meditazione. La sua lunga veglia venne tormentata dalle tentazioni di Mara, il Signore del Mondo e dell’Illusione. Di fronte alla potenza delle tentazioni, Siddhartha temette di vacillare e, portando la punta delle dita della mano destra a sfiorare il suolo, chiamò la Madre terra a testimone delle innumerevoli esistenze che egli già aveva vissuto ed essa apparve nelle forme di una donna dai lunghi capelli grondanti acqua. Mentre dal cielo scendevano torrenti di pioggia, la Madre terra arrotolò i suoi capelli in una stretta treccia e ne scese un fiume di acqua che si trasformò in un mare in cui tutte le tentazioni annegarono. Forse fu in questo istante che il Re dei Naga inviò il suo emissario, il naga a sette teste Muchalinda, che aprì a ombrello le sue teste per proteggere Siddhartha dai rovesci di pioggia e avvolse le sue spire sotto il corpo per sollevarlo dalle acque.

Nella notte del plenilunio del mese di Vesakha, che cade tra i nostri mesi di aprile e maggio, dell’anno 523 a. C. Siddhartha si “risvegliò” alla Verità. Aveva soppresso in se i quattro asrava, cioè “influssi” che legano l’uomo: kama il desiderio sessuale, bhava la brama di esistere, avijja l’ignoranza e ditthi l’opinione. Era diventato “l’Illuminato”, il Buddha. I suoi contemporanei, però, non usarono mai questo appellativo: anche nei testi canonici viene chiamato Tathagata, “Colui che è giunto a cogliere la realtà”, oppure Bhagavant, il “Beato”. Iniziò allora la sua vita missionaria per insegnare la Verità.

Come prima cosa, si mise alla ricerca dei cinque asceti che lo avevano abbandonato quando era loro parso che lui avesse abbandonato la via della ricerca. Li ritrovò nel parco di Isipatana a Varanasi, cioè Benares, e, superato il loro iniziale sdegno, si sedette e pronunciò quello che è passato alla storia col nome di Sermone di Benares, che contiene l’essenza di tutto il suo insegnamento. Al termine, i cinque asceti chiesero di diventare suoi seguaci e furono i primi bhikkhu, che significa “mendicante” ed è il nome dei monaci buddhisti. Furono ordinati monaci da Tathagata stesso che pronunciò la formula rimasta poi inalterata nei secoli: “Vieni o bhikkhu che la Legge è stata proclamata; conduci una esistenza nobile affinché cessi completamente il dolore”. Era così nato il Sangha, cioè la Comunitá monastica.

La predicazione lo portò a percorrere tutte le strade del Nord dell’India e la rossa polvere sollevata dai suoi passi impregnò il bianco abito donatogli a Bodh-Gaya facendogli assumere quella tinta ocra che da allora contraddistingue la veste dei monaci. Insegnava agli umili ma non temeva di affrontare i potenti e così si recò a Rajagaha, capitale del Magadha, e si fece ricevere nella reggia del potente re Bimbisara. Il sovrano lo ascoltò e, forse, convertì il suo animo, ma non poteva diventare un bhikkhu lui stesso e allora fece dono al Sangha del parco di Veluvana, “la foresta dei bambù”, dove venne costruito il primo monastero e fu fissata la regola del “ritiro” di tutti i monaci per tre mesi durante la stagione delle piogge. Negli anni successivi le donazioni si moltiplicarono e con esse si moltiplicò il numaro dei monasteri ma ai monaci rimase sempre l’obbligo di essere dei “mendicanti” e dei pellegrini missionari.

Il Buddha si fece anche convincere a rivedere la sua famiglia e tornò al palazzo di Kapilavatthu ma nulla ormai ve lo poteva piú trattenere e ne ripartì recando con se il fratellastro Ananda che divenne poi il suo più intimo collaboratore e che fu, dopo la sua morte, la “memoria storica” che tramandò tutti i sermoni e tutti i più importanti eventi della vita di Tathagata. Subito dopo il suo soggiorno a Kapilavatthu il Buddha dovette affrontare delle difficili prove.

Senza alcuna esitazione, infranse le basi stesse della società induista e le fondamenta del potere dei brahmani ordinando monaco un barbiere, Upali, che apparteneva alla casta dei sudra. I suoi seguaci non cessavano di aumentare e fra questi vi fu anche un ricchissimo mercante che donò al Sangha il parco di Jetavana, a Savatthi capitale del Kosala, che così divenne un secondo monastero per accogliere i bhikkhu durante i mesi delle piogge. Subito dopo avvenne un fatto di grande rilievo: aderì al Sangha lo stesso sovrano del Kosala, il re Pasenadi. Un altro re prima di lui, Bimbisara monarca del Magadha, era stato convertito dalle parole del Buddha e ciò dimostra quale e quanta fosse la forza di coinvolgimento di questo insegnamento che seppe coinvolgere la società in tutti i suoi strati sociali. Mentre la comunità dei fedeli cresceva, il mondo non cessava però di essere lacerato dalla violenza: i due re convertiti furono deposti con la forza dai propri figli e dovettero subire una crudele morte mentre la stessa patria del Buddha, Kapilavatthu e il principato dei Sakya, venne distrutta e la sua popolazione massacrata. Il Sangha passò però indenne attraverso queste violenze e riuscì a mantenere la sua coesione intorno al Maestro non ostante anche i tentativi di alcuni autorevoli monaci, come Devadatta, di provocare degli scismi.

Si era così giunti all’anno 483 avanti Cristo e Tathagata si apprestava a lasciare la vita. Nella sua “notte del Risveglio”il Buddha aveva raggiunto il nirvana, cioè “l’estinzione del desiderio e la liberazione dal ciclo delle trasmigrazioni”, ma restava il “residuo” della sua esistenza materiale. Quando questa fosse cessata non ci sarebbe più stato alcun “residuo” e quindi l’uomo Buddha avrebbe avuto accesso al paranirvana, la “estinzione senza residui” o “liberazione finale”.

Era un evento atteso e accadde nelle forme voluto. Il fatto causale, l’elemento accidentale, pare che sia stato un pasto consumato nella casa di un fedele, un umile fabbro di nome Cunda. Il Buddha non volle che gli altri bhikkhu che erano con lui se ne cibassero, egli mangiò poi fu colto da violenti dolori. Si fece allora trasportare fino a Kusinara, nel regno dei Malla, e si fece deporre in un boschetto di alberi di sàla. Qui, circondato dai suoi discepoli e assistito da Ananda, impartì le ultime istruzioni sulla vita del Sangha poi cessò di vivere. Si dice che poco prima di morire avesse detto a Ananda che i due pasti più importanti della sua vita erano stati quello con cui aveva rotto i sei anni di inutili digiuni nel boschetto di Bodh-Gaya e quello offertogli da Cunda che gli aveva consentito di accedere al paranirvana.

Secondo la tradizione canonica la morte avvenne nel plenilunio del mese di Vesakha, quindi lo stesso giorno della sua nascita e dalla “Illuminazione”. Fu cremato e le sue ceneri furono ripartite in dieci stupa. Si dice che molto più tardi, nel 243 a. C., l’imperatore Asoka le fece riesumare e le suddivise in 14.000 parti che furono interrate in altrettanti stupa sparsi in tutto il mondo buddhista.

Questi furono gli eventi. A noi sono poi giunte infinite narrazioni di avvenimenti che in gran parte sono solo delle pie leggende che hanno nutrito tutte le narrazioni di viaggi di Buddha in ogni paese buddhista o che sono poi diventati motivo di ispirazione della più diffusa iconografia buddhista. Il Buddha indossò sempre l’abito monastico ma spesso lo vediamo raffigurato in improbabili abiti pricipeschi con diadema e gioielli. Per capire dobbiamo rifarci a uno dei numerosi testi apocrifi, lo Jambupattisutta, dove si narra che il re Jambupatti, volendo abbagliare il Buddha con la sua ricchezza e la sua potenza, gli rese visita ammantato degli abiti e dei gioielli piú preziosi. Ma quando giunse in sua presenza lo trovò assiso in trono, splendente come una divinità e rivestito degli abiti e degli ornamenti del Rajadhiraja, il Re dei Re. Il testo precisa che poiché il Buddha ha indossato almeno una volta gli abiti regali nulla vieta che venga rappresentato anche in questo suo aspetto. Non meno diffusa è l’immagine dei “mille e mille” Buddha che è la rievocazione del grande miracolo di Sravasti, compiuto secondo la tradizione quando per convertire dei santoni miscredenti che lo sfidavano facendo mostra dei loro poteri magici, il Buddha fece scaturire dal proprio corpo prima un fiore di loto, poi due, poi cento, poi mille: una quantità infinita che riempì i cieli e l’intero universo e ogni fiore si dischiuse svelando al suo interno una immagine del Buddha immerso nella meditazione.

Questi aspetti agiografici sono quelli hanno trovato la maggior diffusione popolare e sono anche quelli che più facilmente sono pervenuti anche a noi comparendo nei dipinti sui muri delle pagode o nella statuaria posta sugli altari.