L'insegnamento del Buddha

E’ errato pensare che il Buddha abbia voluto rivelare un nuovo credo religioso diverso e antagonistico rispetto alla fede dei suoi contemporanei.  

Era figlio della società e della cultura indiana del VI secolo e profondamente credeva nei principi filosofici e religiosi elaborati, dieci secoli prima, dagli antichi pensatori del periodo prevedico. Mai ne mise in discussione i fondamenti, quali quello del Brahman, “l’Assoluto, causa incausata”, o l’atman, la “autocoscienza generatrice dell’esistenza”. Nel suo intimo restava certo che l’essere vivente, tutti gli esseri, sono soggetti alla legge del karma, così come insegnava la antica dottrina delle Upanishad. Volendola banalizzare, si può dire che ogni azione dell’uomo produce un frutto, una energia, il karma, che sopravvive all’uomo dopo la sua morte e lo costringe a vivere una nuova esistenza dove produce nuova energia che continua a sopravvivergli, in un ciclo continuo di esistenze che è il samsara. Questo perenne ciclo di esistenze genera il dolore. Sicuramente fu la sua esperienza personale che gli fece raggiungere la consapevolezza che la ritualità dei sacrifici celebrati dai brahmani non eliminava il dolore umano e neppure le più rigorose pratiche ascetiche potevano sopprimerlo.

Volendo dare credito al resoconto che viene tramandato e che il Buddha stesso diede della sua “Illuminazione”, egli, come prima cosa, ricordò tutte le sue esistenze precedenti, che furono oltre centomila, riconoscendo in ognuna delle sue esistenze l’effetto della legge del karma: ognuno rinasce in base al suo comportamento precedente e secondo le sue azioni rivive in una condizione peggiore o più elevata: sono le “cause l’un l’altra concatenate”. Così vengono già implicitamente delineate le regole etiche cui ci si deve attenere.

Solo a questo punto giunge la conoscenza delle “Quattro Nobili Verità”: 1) l’esistenza è dolore causato da nascita, malattia e morte; 2) l’origine del dolore è la brama di esistere; 3) sopprimendo la brama, cessa il dolore; 4) la via che conduce alla soppressione del dolore è il Dharma, la “Dottrina”. La causa prima del dolore è quindi la brama, il desiderio cui si aggiunge la mancanza di autocontrollo che deriva dall’ignoranza, o per meglio dire dal rifiuto della conoscenza.

Unico rimedio è il seguire il Dharma che si articola nel “Ottuplice Sentiero”, il cui scopo è quello di ridare purezza al rapporto tra l’uomo e il mondo, liberandolo dai condizionamenti consci e inconsci, dalle abitudini, dai pregiudizi. Seguendo l’Ottuplice Sentiero l’uomo giunge a una presa di coscienza totale sia di se stesso che del mondo esteriore “cosí come è”, ma l’uomo che vive nel mondo non può conseguire tale obbiettivo.

Per prima cosa può fare in modo di non peggiorare il proprio karma e per ottenere ciò deve rispettare i cinque fondamentali precetti etici che sono: 1) non uccidere; 2) non rubare; 3) non mentire; 4) non condurre vita sessuale sregolata; 5) non assumere sostanze che turbano la mente. Se vuole però migliorare il proprio karma per rinascere poi in una condizione più elevata, deve praticare intensamente la carità e acquisire molti meriti.

Di esistenza in esistenza, l’uomo così si eleverà fino a rinascere in una condizione che gli permetterà di diventare un bhikkhu. Rinunciando alla vita mondana entrerà allora nel Sangha e potrà iniziare a percorrere l’Ottuplice Sentiero. Dovrà rispettare la 227 rigorose norme della Regola, ma una sola esistenza non gli basterà e dovrà reincarnarsi altre volte, migliorando sempre, sino a che non raggiungerà lo stato di “santità”, cioè la condizione di arhat, e solo un arhat può sopprimere il desiderio, estinguere il dolore e quindi accedere al nirvana.

L’Ottuplice Sentiero

1)     “Retta visione”: saper contemplare la realtà per quello che essa è, senza offuscarla con opinioni personali;

2)     “Retto pensiero”: costante controllo del proprio pensiero;

3)     “Retta parola”: le parole devono corrispondere al pensiero enunciato;

4)     “Retta attività”: agire come e quando è necessario;

5)     “Retta condotta di vita”: adeguare le necessità della vita fisica ai fini spirituali;

6)     “Retto sforzo”: adeguare le azioni all’importanza dello scopo;

7)     “Retta presenza dello spirito”: essere sempre consapevoli di tutto ciò che si fa, si dice, si prova;

8)     “Retta pratica della meditazione”: meditare senza farsi condizionare dagli stati d’animo contingenti.

 

 

Nasce una religione

Il Buddha non lasciò alcuno scritto. Poco tempo dopo la sua morte e il suo accesso al paranirvana la comunità monastica indisse un concilio a cui parteciparono cinquecento bhikkhu.

La memoria di Ananda fu la fonte principale cui si attinse per redigere un primo testo del Canone contenente i discorsi del Maestro e le regole monastiche. Lo si scrisse in pali, la lingua vernacolare parlata del Nord dell’India che il Buddha aveva usato per predicare, in contrapposizione al dotto sanscrito usato dalla casta dei brahmani. Il testo venne poi completato nel corso dei successivi concili di Veisali, nel 383, e di Pataliputta, nel 243. Assunse così la veste definitiva che è giunta fino a noi con il nome di Tripitaka, le “Tre ceste”, che si suddivide in: Vinaya, che contiene le regole della vita monastica; Suttha, che comprende le prediche e racconti edificanti; Abhidharma, che si suddivide in sette trattati di metafisica.

Durante il concilio di Veisali del 383 avvenne però un fatto dalle enormi conseguenze: i settecento monaci presenti si affrontarono in una accesa disputa dottrinale. La controversia nacque fra i Theravadin, cioè i “discepoli anziani”, e quelli che erano chiamati Mahasanghika, i “discepoli della Grande Comunità”. Semplificando molto i termini delle questioni dottrinali dibattute, si può dire che i primi sostenevano che si poteva conseguire la condizione buddhica, cioè l'Illuminazione, solo seguendo rigorosamente le regole di vita della comunità monastica, cioè del Sangha. Gli altri affermavano invece che la condizione buddhica era una qualità innata: ogni essere umano la possedeva, e doveva soltanto prenderne coscienza, cioè svilupparla.

Sulla base della controversia dottrinale fra questi due gruppi in seguito si produsse la divisione tra il Theravada, la “Dottrina degli anziani” detta anche “Piccolo Veicolo” o Hinayana e il “Grande Veicolo” o Mahayana. Le divisioni si accentuarono poi investendo la natura stessa del Buddha. Gli adepti del Theravada considerano il Buddha non una divinità né una Entità superiore, ma lo reputano l' Uomo “Illuminato”: Maestro e Guida spirituale. La concezione degli adepti al Mahayana sosteneva invece l’esistenza di una personalità sovraterrena, il lokottara, del Buddha, al di là del tempo e dello spazio, trascendente alla sua apparizione sulla terra. Affermavano quindi l’esistenza di un principio buddhico, o bodhi, primordiale, che si proietta e si incarna poi nei Buddha storici i quali scendono nel mondo per insegnare agli uomini la via della salvezza. La loro opera è proseguita e completata dai Bodhisattva che sono esseri che, giunti alla soglia della “liberazione dal samsara”, rimandano indefitivamente il loro accesso al nirvana fino a quando tutta la umanità del loro evo cosmico non è stata totalmente illuminata dal Dharma, la “Legge” o “Dottrina”.

Questa concezione dottrinale apriva al buddhismo immense possibilità di assimilazione di concezioni e forme proprie anche a altre forme di religiosità e fece quindi del Mahayana il buddhismo missionario che si diffuse verso il Nord penetrando in Tibet, dove assunse la forma del tantrismo e del lamaismo, poi in Cina e Vietnam e fino in Corea e in Giappone dove diede vita alla dottrina zen.

Il Theravada ebbe invece il suo luogo di ortodossia e irradiamento in Sri Lanka e divenne la dottrina canonica dei Paesi del Sud-Est: Myanmar, Thailandia, Laos e Cambogia. Il Tripitaka è rimasto come fondamento dottrinale del Theravada, anche se nei secoli si sono moltiplicate i testi di commento e speculazione metafisica.

Meno concettuali, ma molto più diffusi anche fra gli umili monaci e il popolo dei fedeli, sono gli Avadana, una raccolta un po' ingenua di avvenimenti miracolosi e di vicende edificanti, e gli Jataka, i “Nascimenti”. Sono 547 racconti, leggende e parabole illustranti momenti ed episodi delle precedenti esistenze del Buddha storico, da ognuno dei quali viene tratta una morale, un motivo di riflessione e un insegnamento. Gli Jataka hanno dato spunto a innumerevoli opere plastiche e sono regolarmente raffigurati nei dipinti che adornano i muri di tutti i luoghi di culto: quasi come un grandioso “catechismo” spiegato con le immagini.