Templi del X secolo

Yashovarman scelse con cura il luogo in costruire il Bakheng, il tempio che celebrava la nascita della 
nuova città: lo fece erigere sulla sommità del roccioso "Monte dei Possenti Antenati" che si alza per 65 metri sulla pianura. Una ripida ascesa sul lato orientale e un sinuoso sentiero sul lato sud conducono al culmine. Qui, tra il 895 e il 910, Yashovarman fece scavare la pietra della cima e tagliò nella roccia i gradoni di un tempio-montagna a cinque terrazze. Misura alla base 72 metri di lato e all altezza degli 8 metri della piattaforma superiore ha un lato di 47 metri, non ha quindi un netto slancio verticale ma l'effetto viene ottenuto per la naturale posizione di cuspide della collina. La nuda pietra fu rivestita con arenaria scolpita, ma tempo e agenti atmosferici hanno cancellato gran parte delle decorazioni; ciò che resta testimonia tuttavia forme espressive di raffinata eleganza e sobrietà. Lunghi lavori di restauro liberarono la piramide dai detriti e pietrame con cui i bonzi avevano tentato di "buddhizzare" il tempio, apparve allora la pienezza delle forme del Bakheng. Sono 44 i prasat in muratura che fanno corona alla base e 12 file di 5 prasat più piccoli si snodano ai lati delle quattro scalinate assiali e agli angoli delle terrazze. Al centro della piattaforma superiore domina il santuario che ospitava il sacro linga in oro e i 4 prasat posti sull' asse dei punti cardinali intermedi gli fanno corona. Escluso il prasat centrale, sono quindi 108 le torri-santuario che coprono il Bakheng ma da ogni lato lo si guardi se ne possono vedere solo 33, tante quante sono le divinità che secondo i miti vedici risiedono sul monte Meru. Nella volontà di Yashovarman il Bakheng era il phnom dedicato a Shiva ed era al vertice di un triangolo formato dal phnom Bok, posto una quindicina di chilometri a nord-est e dal phnom Krom che è ad altrettanti chilometri a sud-ovest. Questo sacro triangolo ospitava Shiva, Brahma e Vishnu, le tre massime divinità poste a protezione della capitale. Molto pubblicizzata è l'ascensione al phnom Bakheng nel tardo pomeriggio per "cogliere le suggestive immagini del tramonto sulla pianura di Angkor". Ogni opinione è rispettabile, ma prima di salire è bene contare la quantità di moto, auto, minibus e autobus fermi nel posteggio che è stato costruito ai piedi della collina. Diverse centinaia di persone si spintonano sui gradoni del tempio cercando un quasi impossibile spazio di ripresa per tramonti di dubbia riuscita mentre il solo colore locale viene dalle innumerevoli bancarelle, dai piccoli bar e dagli immancabili venditori di souvenir. La quiete la si trova non lontano dal Bakheng, dove, quasi accucciato ai suoi piedi, c’è un piccolo e poco celebrato tempio-montagna che gli esperti definiscono un "capolavoro di armonia architettonica". Poche decine di metri prima della Porta Sud di Angkor Thom, si apre a sinistra una radura coperta di un tappeto verde e delimitata da un emiciclo di alte piante. Al centro si leva la perfetta piramide del Baksei Chamkrong, iniziato da Harshavarman e poi completato e consacrato da Rajendravarman che nel 948 fece incidere una stele che riporta la genealogia dei primi re dei Kambuja, a partire dalla mitica coppia dell'asceta Kambu e della ninfa celeste Meru. La struttura, nella sua essenziale sobrietà, è un vero trattato di architettura religiosa scritto con la pietra. Da una base quadrata di 27 metri di lato si alzano 4 terrazze in laterite fino ad una altezza di 12 metri. Le pareti sono lisce, esclusa la quarta terrazza dove la pietra è leggermente modellata. Le quattro scale assiali sono ripide e accentuano lo slancio verso l'alto del prasat che ha le pareti in mattone decorato con abbozzi di bassorilievi un tempo ricoperti da stucchi scolpiti e policromi. Sulle colonne e sugli architravi in arenaria poco resta delle decorazioni. Questa nudità delle superfici rende ancora più ammirevole la sobria perfezione della forma architettonica. In modo analogo, nel 921 il brahamano di corte Mahidharavarman fece costruire il Prasat Kravan, un piccolo ma delizioso tempio composto da 5 prasat in mattone dedicati al culto vishnuista con caratteristiche strutturali, stilistiche e decorative uniche nella storia dell'arte khmer. I prasat sono allineati su una bassa piattaforma rivolta a est e malgrado il sapiente restauro che hanno subito sono tutti tronchi, salvo quello centrale che conserva l'originaria struttura piramidale a piani sovrapposti. L'esterno presenta una linearità delle forme straordinaria e le lisce pareti sono appena modellate da cornici e sfumati bassorilievi di dvarapala. Le decorazioni su colonne e architravi sono ormai quasi solo più abbozzate per il deteriorarsi dell'arenaria con il tempo. Il particolare interesse del Kravan si trova nel prasat centrale dove, caso unico nell'arte khmer, le pareti interne sono decorate con raffinati bassorilievi scolpiti nel mattone. Le sculture non erano coperte da stucco ma solo dipinte e il disegno appare ancora oggi molto netto a dimostrazione dell'abilità dell'artefice, della buona qualità dell'argilla dell’impasto e della ottima cottura dei mattoni. E' l'unico caso di cella di prasat decorata sulle pareti interne e l'iconografia è quella del mito vishnuista. A sinistra, Vishnu a 4 braccia è immagine del suo avatara Vamana che con "tre passi" riconquista al demone Bali la Terra, lo Spazio intermedio e il Cielo. Al centro, Vishnu domina nella regalità delle sue otto braccia, simbolo di ogni potere. Sulla destra, infine, Vishnu è raffigurato sul dorso di Garuda, la sua cavalcatura sacra. Al centro della cella appare ancora la sede del sacro linga mentre in alto si nota la cornice che reggeva una soffittatura di legno. Gli altri prasat sono internamente spogli, escluso quello a nord che presenta alcuni bassorilievi, purtroppo incompleti, con Lakshmi, la shakti che non è la moglie come si è soliti dire ma l'energia femminile e creatrice del dio Vishnu.
Nel 952 il re Rajendravarman volle sacralizzare l'immensa opera del Baray orientale erigendovi il tempio del Mebon.  Al centro della grande distesa di acqua fece costruire un’isola artificiale alta 3,5 metri e di 120 di lato. Vi si accedeva solo con le barche e al posto delle scale di accesso si trovano quattro imbarcaderi cui fanno guardia minacciosi leoni in arenaria. La struttura è quella di un tempio-montagna anche se la proiezione in altezza è ridotta. Il materiale impiegato è quasi esclusivamente la laterite e il mattone decorato con stucco, mentre l'arenaria è riservata alla via sacra, ai portali e alla statuaria zoomorfa ove spiccano gli stupendi elefanti collocati agli angoli delle terrazze. La prima piattaforma è ingombra dei resti di costruzioni che servivano come sale di riposo per fedeli e celebranti e assolvevano il ruolo di biblioteche mentre sulla terrazza superiore 8 minuscoli prasat e 5 piccole cappelle erano usate per i culti complementari. Tre metri più in alto, si leva la terrazza superiore che misura 32 metri di lato ed è pavimentata in arenaria. Al centro, su un basamento in arenaria alto circa due metri si leva il prasat principale che come i prasat angolari ha una slanciata struttura in mattone. Le pareti esterne, dove decorazioni, modanature e bassorilievi sul mattone sono appena sbozzati, sono costellate di fori circolari dove erano inseriti i tasselli in legno che sostenevano un rivestimento di pannelli in stucco dalla ricca e policroma decorazione ma il tempo non ne ha lasciato che poche e sbiadite tracce. Architravi, colonne, false porte dei prasat sono in arenaria e malgrado le ingiurie dei secoli conservano ancora l'immagine di una finezza ed eleganza di esecuzione di assoluto rilievo. I motivi iconografici attingono dalla ricca mitologia induista e le decorazioni a fogliaggi o di ispirazione fantastica e quasi onirica testimoniano la maturità di un' arte decorativa già dotata di possente originalità. Appena oltre la diga Sud del baray c'è il luogo dove nel 961 Rajendravarman  fece costruire il Pre Rup, il tempio-montagna in cui pose il sacro linga d'oro. La tecnica costruttiva, i materiali utilizzati e la stessa pianta sono identici al Mebon, ma le dimensioni sono molto più imponenti e raggiunge alla terrazza superiore l'altezza di 12 metri. Il recinto di base misura 120 metri per 108 e lo si attraversa passando dal gopura Est che dà accesso a un primo cortile dove su un basamento in laterite ci sono 5 atipiche torri in mattone collocate in modo asimmetrico: 3 a Sud e 2 a Nord. Sono opere di cui si ignora la destinazione e non furono mai completate. Valicato il secondo gopura, si accede a una vasta piattaforma sul cui perimetro si levano una serie di lunghe e strette sale in muratura che dovevano essere destinate ad accogliere fedeli e celebranti e che in tempi successivi evolveranno riunendosi in un unico corpo per diventare le gallerie a volta tipiche della architettura dell'anno 1000. Di fronte alla scalinata che conduce alla piattaforma superiore si trova una sorta di grande vasca in pietra che sicuramente era il basamento di una statua del toro sacro Nandin ma che la credenza popolare ha trasformato in un sarcofago destinato ai riti funerari della cremazione e in particolare alla cerimonia della rotazione del corpo, il  pre rup, da cui è venuto il nome del tempio. Ai lati di questa vasca, due eleganti biblioteche aperte a ovest ospitano una la "pietra dei nove pianeti" e l'altra la "pietra dei sette asceti" mentre nell'angolo nord-est fu eretta una minuscola edicola in pietra che ospitava la stele di fondazione del tempio. La piramide ha una base di 46 metri mentre la piattaforma superiore ha un lato di 35 su una elevazione di 12 metri: la scala è quindi abbastanza ripida. Al culmine, c’è un basamento in arenaria alto 3 metri e mezzo, protetto da minacciosi leoni, da cui si leva prasat centrale che ha un lato esterno di oltre 4 metri e una altezza di circa 12, mentre di dimensioni solo leggermente inferiori sono i prasat angolari. La tecnica decorativa è la stessa del Mebon: sulle pareti esterne in mattone sono solo abbozzati bassorilievi e decorazioni che furono poi ricoperti da pannelli in stucco cesellato, scolpito e dipinto. Il tempo non ne ha lasciato che qualche povera traccia. Poderoso e raffinato è il lavoro di scultura a bassorilievo su riquadri e architravi dei portali orientali e sulle false porte che si aprono sugli altri punti cardinali. Anche se il tempo e gli agenti atmosferici hanno cancellato molti tratti, la ricchezza dell’ispirazione è eccezionale così come la varietà dei temi mitologici e religiosi trattati: è un'arte che ha raggiunto una sua piena maturità espressiva.
A una trentina di chilometri a nord di Angkor, fu costruito nell’anno 967 Banteay Srei, una delle meraviglie dell’arte khmer. Partendo da Angkor, una bella strada attraversa la campagna cambogiana tra risaie, stagni e case di contadini fino a raggiungere una zona verde e boscosa, purtroppo oggi invasa da bar, ristoranti, banchetti di venditori di ogni genere di souvenir. Non c'è un tempo consigliabile per sfuggire all'affollamento dei turisti che è reso fastidioso dalla esiguità degli spazi del santuario. Si può solo fare affidamento sulla buona sorte, pensando che lo spettacolo è tale che una rinuncia sarebbe imperdonabile. Questo, infatti, è l’unico tempio edificato in arenaria “rosa”, dura e compatta, che il tempo e gli agenti atmosferici non hanno potuto deteriorare. A differenza di tutti gli altri templi, ci appare quindi, quasi, così come appariva agli antichi khmer. L'elegante gopura Est si apre su un viale bordato da steli votive che porta a un secondo gopura a pianta cruciforme. Lo slancio del colonnato e dei doppi frontoni con la loro forma ad arco che rammenta i lignei torana dei templi arcaici, subito danno l'idea della originalità delle soluzioni architettoniche e stilistiche adottate a Banteay Srei. Si entra in un recinto di 95 metri per 100, dove una breve massicciata solca il bacino che circonda il tempio e si varca un terzo gopura che introduce a un cortile interno di 42 metri per 38 dove gli spazi perimetrali sono interamente occupati da 6 edifici in laterite, a pianta stretta e allungata, che avevano una copertura in travi di legno e tegole e erano adibiti a sale di riposo e meditazione. Uno stretto passaggio porta infine nel "sancta sanctorum": un cortile di 24 metri per 24 il cui spazio centrale è occupato da una piattaforma a "T" su cui si levano tre prasat le cui forme, nelle loro ridotte dimensioni, sono di una straordinaria eleganza. Il prasat centrale, preceduto da un breve portico, ha una base di soli 1,90 metri per 1,70 e una altezza di 9.80 metri, quelli laterali hanno base analoga e una altezza di 8,34, ma la ricchezza del decoro, il ridursi progressivo della sezione dei piani sovrapposti, i piccoli prasat votivi collocati sugli angoli dei cornicioni, la sontuosità dei bassorilievi, conferiscono a questi prasat una dimensione spaziale eterea anche se, avvicinandosi, ci si accorge che si hanno gli occhi all'altezza del frontone delle porte e per entrare è quasi necessario inginocchiarsi. I dvarapala posti agli angoli hanno nella loro semplicità e realismo delle forme un atteggiamento quasi efebico che rammenta le migliori espressioni dell’arte greco-indiana del Gandhara. Le devata, maliziosamente ancheggianti, sorgono da corone di fiori per offrire al visitatore un ineffabile e inquietante sorriso. I riquadri, le pannellature, gli architravi sono come scene teatrali che raffigurano i più famosi miti shivaisti, vishnuisti e vedici. Non meno armoniosa è la struttura delle due biblioteche i cui frontoni illustrano altri miti induisti. Interessante è il lato ovest della biblioteca nord dove appare la raffigurazione quasi fotografica di uno di quei sontuosi palazzi in legno che facevano lo splendore di Angkor imperiale e che noi oggi possiamo solo immaginare. Pregevole e originale è anche la statuaria a tutto tondo dove al posto dei classici naga, leoni ed elefanti troviamo delle singolari forme umane inginocchiate, con la testa di scimmia, di leone, di garuda e di un individuo dai tratti negroidi. In loco restano delle copie in cemento, gli originali, così come una deliziosa statua di Shiva con Uma e lo stupendo frontone raffigurante il duello finale del Mahabharata, sono conservati al Museo di Phnom Penh. Il pregevole frontone ovest del terzo gopura orientale ha invece preso la via del Museo Guimet di Parigi. Alcuni hanno definito Banteay Srei un'opera di cesello degna di Benvenuto Cellini. Altre dotte chiavi di lettura sono state elaborate e nessuna può essere trascurata ma si impongono anche alcune considerazioni banali, quasi da illetterati. Banteay Srei non fu opera di un sovrano e non richiedeva la grandiosità delle opere imperiali. Nacque dal volere e dal sapere del brahamano Jaynavaraha, il precettore del futuro re Jayavarman V, che forse volle scrivere nella rosa pietra di Banteay Srei gli insegnamenti più importanti dei Veda, i miti e le più antiche tradizioni induiste come per farne uno stupendo catechismo reso perenne dalla pietra.