Statuaria pre-angkoriana

Nulla sappiamo dei tempi precedenti al VI secolo nei quali peraltro gli artisti del Fu-nan dovevano avere sicuramente gia sviluppato delle capacità tecniche e una sensibilità artistica non indifferenti, come testimoniano gli annali di corte cinesi che riportano la descrizione dei doni e dei tributi inviati all'Imperatore, fra i quali c'erano fusioni in bronzo e una statua del Buddha in corallo alta più di un metro. Numerose erano ovviamente anche le statue in legno che purtroppo sono andate perdute.
Lo splendore di quell'arte è magnificamente testimoniato dalle statue presenti nelle prime sale del museo che attestano come la statuaria del Funan fosse giunta a una sua reale pienezza espressiva e stilistica affermando la propria originalità rispetto ai modelli della scuola indiana. Ciò avvenne sotto il regno di Rundravarman, il re fervente vishnuista, come attestano alcuni capolavori come l'elegante figura di Krshna Govardhana, la possente immagine in scisto di Vishnu a otto braccia e le altre due statue in scisto di Krshna e Balarama, stupendi esempi di antropoformizzazione della figura divina. anche se ancora è presente una tendenza all' imitazione dei modelli indiani già si rendono manifesti i tratti originali dell'arte khmer e, in particolare, la ricerca della libertà della forma nello spazio attraverso la realizzazione dell'opera a tutto tondo.
La statuaria indiana mai aveva voluto esprimersi totalmente nella pienezza di uno spazio tridimensionale e si era sempre arrestata sulla soglia di un altorilievo molto accentuato, dove l'immagine sembra emergere, sgorgare dal blocco di pietra di una stele, di una parete, talora dall'abito stesso che cade fino ai piedi: scelta stilistica ma anche artefizio tecnico che così consentiva di supportare la struttura corporea e le braccia recanti gli attributi divini, il tutto realizzato in un materiale fragile come l'arenaria. 
 

Nel periodo dello stile di Phnom Da, il solo Krishna Govardhana pare ancora legato a tale modello ma si può ritenere che si tratti di una statua che faceva parte di una grotta-santuario artificiale, dello stesso stile espressivo di quelle naturali in India. D' altra parte era anche tecnicamente impossibile realizzare, a tutto tondo, una intera montagna, anche se resa solo in modo simbolico, sorretta da una sola mano della divinità.
Dubbiosi sulla tenuta e stabilità dell'arenaria e dello scisto su cui lavoravano, gli artisti cambogiani, pur liberando completamente nello spazio l'immagine e ponendo la stessa cura nel realizzare sia la parte anteriore che il dorso, mantennero un arco a forma di ferro di cavallo che fungeva da sostegno al corpo e alle braccia e alle mani che impugnano le armi o portano gli attributi propri della divinità. La sua forma a ferro di cavallo non può non ricordare le arcate della facciata e le false finestre chiamate in lingua tamil kudu dei chaitya, le sale di venerazione del Buddha, già erano in India nel corso del III secolo. Quando l'iconografia lo consentiva, sono le mazze da guerra impugnate dall' idolo e poggianti a terra che fungono da supporto per le braccia, oppure è una piega del sampot, il corto abito, che scendendo fra le gambe fino a terra fornisce un ulteriore punto di appoggio.
Tutti questi accorgimenti nulla tolgono al realismo e alla plasticità delle figure realizzate con rimarchevole cura dei tratti anatomici. I volti dai lineamenti curati e ben delineati, il naso dritto e quasi aquilino, occhi leggermente a mandorla ma non mongolici e incorniciati da sopracciglia allungate e la piega di eleganti labbra che accennano un dolce sorriso, esprimono una regale serenità e una calma bellezza. Tutte la statue si presentano con caratteri di estrema semplicità nel corredo che nelle divinitá brahamaniche si limita alla cintura e al sampot ma che sappiamo venivano poi ricoperte di sontuosi abiti e ancor più riccamente ornate di gioielli e monili.
Caratteristiche analoghe compaiono nella statuaria buddhista che comunque risente ancora della lezione stilistica e iconografica della scuola indiana di Amaravati e quindi dell’arte del Gandhara, ma che presenta opere in cui sapientemente si fondono il vigore del tratto e la serena spiritualità emanata dai volti come il Buddha di Vat Romlok e il Buddha del Vat Phnom di Udong. Di originale rispetto ai modelli indiani si manifesta la caratteristica di trasformare i riccioli della capigliatura in una sorta di lunghe spirali e di rendere poco piú che visibile la protuberanza, l'ushnisha, posta al sommo del capo. L'abito monastico aderendo al corpo ne modella le forme e conferisce alla ieratica immagine del "Illuminato" una vitalità umana strordinaria, resa ancor più attraente dalla magistrale delicatezza con cui sono resi i tratti del volto atteggiato a un sereno sorriso.
Questa lezione stilistica, dopo un breve periodo di appannamento, rinasce con tutta la sua forza espressiva nello stile di Sambor Prei Kuk, nome attuale di Isanapura, la città che agli inizi del VII secolo Isanavarman rese grande e splendente come capitale del regno del Cenla, che aveva di fatto inglobato l'ormai decadente Fu-nan. L' arte del Cenla si generò dal ricco e inesauribile patrimonio culturale del Fu-nan cui apportò tuttavia una ventata di nuova e originale ricerca delle forme espressive. Bisogna solo lamentare il fatto che ci siano giunti troppo pochi esemplari di questo periodo la cui arte trionfa con opere di maestosa serenità e di eccezionale raffinatezza stilistica come la Durga acefala, lo Harihara di Prasat Andet e la Dama di Koh Krieng. Corpi possenti ma slanciati, volti affilati e fortemente espressivi, un vago, dolce e quasi indecifrabile sorriso conferiscono tanto alle figure maschili che a quelle femminili una regalità allo stesso tempo eterea e maestosa. E' un'arte che sembra voler proclamare la ricchezza e la potenza di un regno che non presagisce ancora il suo prossimo e repentino tracollo. Tali tratti di effimera magnificenza si manifestano anche nella grande cura posta nell'elaborare le acconciature e nella raffinatezza dell'abbigliamento, dei sampot, delle gonne, delle cinture: è quasi un inno levato alla regale maestà degli idoli del Cenla.