REPORTAGE DALLA CAMBOGIA DEL XIII SECOLO
scritto dal letterato cinese Ceu Ta-kuan in Angkor nell'anno 1296
Ceu Ta-kuan giunse in Cambogia nel 1296, al seguito di una ambasceria inviata da Qubilai Khan, l'imperatore della dinastia Yuan che nel 1274 aveva accolto alla sua corte il giovane Marco Polo.
E' una circostanza da tenere presente. Marco Polo giungeva dalla Venezia della seconda metà del XIII secolo: la "Perla dell'Adriatico" era sicuramente la città più bella e ricca di tutto l'Occidente. Rigurgitava dei suoi antichi tesori d'arte e di tante magnificenze. Non era quindi uno zotico provinciale l'uomo che restò abbagliato dallo splendore di Cambaluc, la capitale del Grande Kane e quando ritornò in Italia ne conservò un ricordo fantastico che, rinchiuso in una prigione, trasmise a Rustichello da Pisa cui dettò Il Milione.
Ceu Ta-kuan proveniva da quella stessa fantastica città che aveva abbagliato il viaggiatore veneziano eppure restò ammirato alla vista di Angkor, la capitale degli imperatori khmer, e quando tornò in Cina, anch'esso, ne conservò un ricordo fantastico che riportò nella relazione di viaggio che tutti i cinesi che si recavano in paesi stranieri erano tenuti a redigere per gli Archivi imperiali.
Così nacquero le sue "Memorie sui costumi di Cambogia", in cinese Cen la fong t'u ki.
Della vita di Marco Polo conosciamo ogni particolare ma di quel letterato cinese sappiamo veramente poco: chi era Ceu Ta-kuan e perché si recò ad Angkor ? Tanto è ricco di particolari nel descrivere il paese khmer, altrettanto riservato Ceu Ta-kuan è invece su se stesso e sullo scopo della sua missione.
Qualche cosa comunque la dice ma per capire cosa esattamente dice è forse utile affidarsi alle cose tramandateci dal suo contemporaneo Marco Polo che bene conosceva le consuetudini della corte di Qubilai Khan. Ceu Ta-kuan scrive che un centurione con le insegne della tigre e un chiliarca con la tavoletta in oro furono inviati in Cambogia ma "non ritornarono più". Pelliot, che tradusse il testo dal cinese, usa un termine latino, centurione, e uno greco, chiliarca, e crea quindi un po' di confusione. Nel Milione, Marco Polo dice che quello che "á segnoria di 1.000, á tavola d'oro", ma tavola d' oro a testa di tigre, la ha chi ha "segnoria di 10.000". Non si trattava quindi di un semplice centurione, ma di un alto comandante con un emblema d'oro pesante 120 libbre [oltre 54 chili]. Nel 1282 il generale mongolo Sogatu aveva invaso il Champa e aveva inviato una spedizione per compiere una scorreria entro i confini dell' Impero khmer. I Mongoli vennero sconfitti e i due comandanti "furono presi e non tornarono più". L'avere trattenuto questi ufficiali era un grave atto di sfida al potere imperiale e, perciò, lo stesso "santo Figlio del Cielo inviò un ambasciatore per richiamare all'ordine"
La delicata missione diplomatica ebbe buon esito perché infine ricevette "omaggio". Ceu Ta-kuan non specifica quale era il suo ruolo a fianco dell'ambasciatore, dice però che il santo Figlio del Cielo lo "incaricò di accompagnarlo". Ma quali erano i suoi compiti ? Lui tace, Marco Polo però forse li spiega. Racconta infatti come lui stesso "aparò li costumi de' Tartari" e "lo Grande Cane....mandollo per suo messaggio a una terra". Lo giovane tornò: bene e saviamente disse l'ambasciata e altre novelle di ciò che egli lo domandò, perché il giovane aveva veduto altri ambasciadori tornare da altre terre, e non sapiendo dire altre novelle de le contrade fuori che la ambasciata, egli li avea per folli, e dicea che più amava li diversi costumi de le terre sapere che sapere quello perché egli avea mandato".
Noi non possiamo sapere per quali ragioni Qubilai Khan amasse conoscere "li diversi costumi": se per curiosità personale oppure per calcolo politico. In ogni caso questo era il suo desiderio e non stupisce quindi il fatto che avesse incaricato una persona fidata, un letterato, di accompagnare gli ambasciatori per riferire in modo dettagliato sui "costumi" del paese. Quanto importante fosse questo incarico traspare dalla manifesta preoccupazione di Ceu Ta-kuan di chiarire che, in molti casi, non ha "potuto esaminare tutto nei dettagli", né casuale è la minuziosa cura con la quale riferisce sui comportamenti tenuti dai sudditi del Figlio del Cielo in terra straniera e sulle cause che hanno indotto molti marinai a disertare per stabilirsi in Cambogia. L' ufficiosità, se non l'ufficialità, del testo viene comunque confermata dal fatto che fu trascritto in molte pubblicazioni imperiali dei secoli successivi. Quale utilità possa averne tratto l'Impero cinese non è dato saperlo, anche perché mai si ebbero interferenze cinesi nelle vicende cambogiane.
Il testo ha invece per il lettore un interesse non inferiore a quello che suscitò negli archeologi del secolo scorso che trovarono descritta nelle pagine di Ceu Ta-kuan la vita quotidiana della città che allora stavano riportando alla luce. La lettura di queste pagine offre mille indicazioni, altrove non reperibili, sulla situazione politica, economica e militare di Angkor alla fine del XIII secolo. Apprendiamo così che lo stato economico dell' Impero khmer era ancora florido e si avevano tre, quattro raccolti di riso ogni anno, l' orticoltura era diffusa, il commercio prospero, il costo della vita era basso e le classi agiate si potevano permettere molti lussi e novità "di moda", come tavoli e letti di fabbricazione cinese e servitori siamesi. Cadono così le affermazioni di chi sostiene che Jayavarman VII per megalomania aveva lasciato la terra cambogiana esausta e priva di risorse. Veniamo però a sapere che le guerre contro i Siamesi avevano provocato la mobilitazione di tutta la popolazione e che dei villaggi vicini ad Angkor erano stati distrutti. Constatiamo che il buddhismo si era ormai ampiamente diffuso fra il popolo, anche se bisogna tenere presente che per Ceu Ta-kuan tutte le statue, anche quelle di Shiva o Vishnu, rappresentano il Buddha. Dice anche che le statue delle "torri", cioè dei santuari, erano in bronzo e se ne arguisce che tutta la statuaria a noi pervenuta, in scisto e arenaria, è fatta di opere minori. Le innumerevoli notazioni, poi, su usi e costumi del popolo e sulla vita quotidiana della gente sono di una arguzia che diverte.
Nella vivacità dello scenario dipinto da questi sguardi lanciati, talora anche con un briciolo di impertinente malizia, sulla vita di tutti i giorni dei cambogiani di sette secoli orsono risiede il sottile fascino di questo vecchio racconto e ne rende piacevole la lettura a chi cammina oggi sulle orme di quell'antico viaggiatore.