Angkor Vat e il XII secolo

 
Suryavarman II salì al trono nel 1113 e morì nel 1150, il suo lungo regno corrisponde a quello che tutti considerano il periodo classico dell'arte angkoriana. Il suo nome è indissolubilmente legato al capolavoro dell'architettura khmer, Angkor Vat che è il simbolo della perfezione ed è anche il compimento di una ricerca stilistica iniziata già nei primi anni del regno. Con lo stile del Baphuon erano già comparse delle modalità di espressione nelle decorazioni e nei bassorilievi fortemente innovative, ma ciò non era sufficiente a Suryavarman II che volle sperimentare delle soluzioni ancora più originali. Lungo il viale alberato che dal Ta Keo va alla Porta della Vittoria di Angkor Thom si apre a destra una radura dove fu costruito all'inizio del XII secolo il Thommanon. E' un minuscolo tempio chiuso in un perimetro di poco più di 40 metri per 60. Nel 1953 fu oggetto di un accurato restauro che come prima cosa ripristinò il tracciato del muro di cinta in laterite. Il complesso è di una semplicità sconcertante. Normalmente ci si giunge dal lato sud, ma conviene portarsi al gopura orientale da dove un basamento si collega a un vestibolo che si apre su una sala lunga 6 metri, larga 3 e alta sul terreno 1,80. Di qui si accede al prasat la cui cella di 3 metri di lato è due metri e mezzo sopraelevata sul terreno. L'interno è sobrio ma appare come illuminato da architravi e frontoni decorati con scene tratte dal Ramayana. Innovativa è la linea esterna del prasat le cui ricche decorazioni e il marcato slancio verso l'alto con quattro piani a dimensione decrescente, accentuato dalla verticalità dei frontoni sovrapposti, anticipa i profili di Angkor Vat. I pilastri angolari sono interamente decorati con ricchi motivi floreali, le tre false porte sono di raffinato disegno e le figure di devata sono di una eleganza di difficile riscontro. Anche il gopura ovest è di una fattura estremamente curata mentre i bassorilievi sono di rara incisività. Nel ridotto spazio del Thommanon trova posto una sola biblioteca con ingresso sul lato ovest e una falsa porta volta ad est. Leggermente sopraelevata sul terreno è anch'essa di ridotte dimensioni, solo 3,70 metri per 3, ma accompagna alla purezza delle linee dei delicati bassorilievi illustranti  miti vishnuisti. La visita al Thommanon é di non poco interesse, se in questo tempio si vede una sorta di "prova d' autore", costruita per verificare su scala ridotta le soluzioni tecniche, i rapporti volumetrici, le proporzioni, lo stile, le forme di decorazione e i modelli iconografici che poi furono dilatati e portati a perfezione in Angkor Vat. Di fronte al Thommanon, in un'altra radura sul lato opposto della strada, fu costruito nello stesso periodo il tempio quasi gemello di Chau Say Tevoda. Lo stile è il medesimo ma rispetto al Thommanon la struttura è completa, con 2 biblioteche e 4 gopura di cui quello rivolto ad est è preceduto da un passaggio sopraelevato su colonne tonde simili a quelle del Baphuon. Era in uno stato di rovina molto avanzato, ma è stato oggetto di un perfetto restauro realizzato da una équipe di archeologi della Repubblica Popolare di Cina.
Una bella escursione che porta a una settantina di chilometri da Siem Reap, attraversando un ambiente che ancora ben poco ha conosciuto del turismo di massa, può aggiungere qualche nuovo elemento di valutazione sull'evoluzione dell'arte khmer nella prima metà del XII secolo. Beng Mealea è un vasto santuario dai lati di 1200 metri per 900 costruito su un solo piano orizzontale. Il selvaggio prorompere della vegetazione fra le strutture in rovina del tempio è uno spettacolo incredibilmente suggestivo. Parrebbe che gli ultimi e soli lavori di conservazione risalgano a quando nel 1913 l' E.F.E.O. disboscò e ripulì il sito e puntellò alcune strutture pericolanti. Il prasat centrale è crollato così come non poche altre costruzioni ma resta ancora l'interesse per molte decorazioni, bassorilievi e fregi nonché per la pianta del santuario centrale, che misura 152 metri per 181. Il crollo delle pareti ha reso inaccessibili molte parti del tempio, ma ora sono state collocate delle passerelle in legno che consentono di percorrerlo, quasi, nella sua interezza. Molte sono le assonanze con Angkor Vat. Innanzi tutto le dimensioni del santuario che sono notevoli e solo di poco inferiori a quelle del Vat e la sua  pianta, anche se si sviluppa non a piramide ma su un piano orizzontale, presenta delle singolari analogie. Tre cortili concentrici, circondati da gallerie la cui volta poggia da un lato su una serie di colonne e dall' altro sul muro, fanno corona allo scomparso prasat principale. Il primo cortile ospita due biblioteche e la sua galleria è collegata a quella del secondo da un chiostro cruciforme semplificato nella struttura ma analogo nell'impianto a quello che nel Vat congiunge la galleria della prima terrazza a quella della seconda. Pressoché la totalità dei bassorilievi è inoltre ispirata a episodi del Ramayana e ad altri temi vishnuisti, inoltre, fatto singolare, compare un bassorilievo della Trasformazione del mare di latte come nella celebrata galleria dei bassorilievi di Angkor Vat. Il Beng Mealea non è datato con esattezza ma tanti fattori fanno pensare che la sua costruzione si possa collocare nei primi anni di regno di Suryavarman II, prima del completamento di Angkor Vat.
Molto si è scritto su questo tempio e si sono riempiti libri sulla sua collocazione, sull'atipico orientamento a ovest, sulla sua funzione di tempio o di tomba. Marchal ha spiegato che essendo posto tra il fiume e la strada di accesso al centro della città era logico che l'ingresso fosse rivolto a ovest, verso la strada. Si può ancora aggiungere che il fatto che il re Suryavarman II fosse vishnuista e il tempio fosse dedicato a Vishnu non ha grande significato perché altri templi vishnuisti, come il Prasat Kravan o il Thommanon, sono orientati a est. G. Coedes ha poi spiegato che il Vat può essere considerato una tomba solo se tali pensiamo che siano anche le nostre chiese dove hanno trovato sepoltura innumerevoli re, principi, santi, guerrieri, artisti e poeti. A giustificare una supposta funzione sepolcrale non è sufficiente il fatto che i bassorilievi della galleria si "leggano" tenendo il tempio alla propria sinistra secondo la consuetudine dei cortei funebri, in sanscrito il prasavya, mentre era costume che le deambulazioni intorno ai templi avvenissero seguendo il corso del sole e avendo quindi l'edificio alla propria destra, il pradakshina. Accantonati i punti che tanto fanno dibattere, è tempo di entrare "dentro" il Vat. Attraversato il bacino, dal gopura della prima cinta muraria la vista si apre su un immenso spazio di 1025 metri per 815 che ora è un vasto prato ben curato, ma che J.Comaille impiegò ben tre anni, dal 1908 al 1911, per ripulire estirpando cespugli e rimuovendo detriti e ammassi di terra. Prima di lasciare il gopura conviene fermarsi un attimo per notare il singolare gioco di luci e ombre proiettato sulle pareti dalle finestre attraverso le eleganti colonne in pietra fatte sul tornio. Compare allora, quasi cesellata sui muri, una sorta di tappezzeria sulla quale tra fiori e fogliaggi sono ricamate eteree apsara che danzano nei cieli. Alcuni tratti di parete sono lisci ma seguendone i contorni si può arguire che erano ricoperti da bande di seta damascata che sappiamo che in quei tempi veniva importata dalla Cina. Usciti dal gopura, s’impone una nuova breve sosta per volgere indietro lo sguardo e ammirare la facciata interna dove in alto è tracciato un singolare fregio di bizzarri cavalieri che montano animali fantastici mentre poste all'altezza del basamento compaiono le prime figure di devata, le celesti divinità signore del Vat. Volgendo finalmente lo sguardo a ovest si ha di fronte il lungo viale assiale che termina con la maestosa silhouette del santuario che si staglia contro il cielo per una larghezza di 187 metri su una profondità di 215. Ciò che colpisce immediatamente l'attenzione è la sapiente composizione della struttura ove il gioco delle prospettive, la perfezione delle proporzioni, l'armonia dei volumi fanno sì che il Vat pur se composto sostanzialmente di piani orizzontali abbia lo slancio verticale di una piramide. Il suo progettista è riuscito infatti a conciliare in una perfetta sintesi il concetto di santuario a chiostro con quello di tempio-montagna. Si dice che una vera opera d'arte deve rispondere alla legge fondamentale che vuole che un edificio possa leggersi con un solo colpo d'occhio e che la sua unitarietà di composizione appaia immediatamente: questo è il caso di Angkor Vat. Fra le tante osservazioni che B. Groslier fece sull'architettura di Angkor, si può leggere che "solo i Greci avevano capito che per avere una visione completa di una qualsiasi struttura, in tutta la sua maestosità, bisogna avere una prospettiva di visione che sia uguale al doppio della dimensione massima del monumento". Al Vat, il viale è lungo 350 metri e la facciata della piramide è di 187: la prospettiva visuale è quindi quasi esatta. L'impressione di grandiosità si accentua quando il visitatore giunge ai piedi del tempio stesso. A differenza di altri templi-montagna, l'altezza del basamento delle tre terrazze è crescente, in modo tale che dal basso la vista di ogni terrazza non sia, anche solo parzialmente, mascherata dalla galleria della terrazza inferiore. In questo modo si ha la visione di una piramide perfetta che però non dà la sensazione di incombere sul visitatore grazie all'accorgimento dello spostamento verso Est del baricentro delle due prime terrazze. Si può quasi immaginare che per ottenere un così perfetto gioco di prospettive l'architetto abbia dovuto far costruire prima un modello in legno su scala ridotta. L'ingresso al tempio è veramente regale, con una terrazza a due livelli a pianta cruciforme le cui balaustre sono formate dal corpo di possenti naga policefali e gli accessi sono custoditi da leoni il cui corpo è ben levato sulle zampe posteriori quasi a ostentare la superbia della capitale di un impero che non temeva alcun nemico. Di qui si sale alla galleria della prima terrazza che è sopraelevata sul livello del suolo di 4 metri. E' la famosa galleria dei bassorilievi. Questa galleria era il limite oltre il quale i fedeli non potevano accedere e solo il re e gli officianti il rito potevano valicare le porte che conducono alla prima terrazza. Tre gallerie coperte, collegate da una trasversale in modo da formare un chiostro cruciforme, portano alla seconda galleria e consentono l'accesso al primo cortile interno del santuario. Le gallerie del chiostro delimitano quattro spazi che sono generalmente chiamati bacini ma non hanno gli usuali gradoni di discesa sui lati e le pareti interne sono decorate a bassorilievo salvo un breve tratto al livello più basso. E' quindi improbabile che fossero riserve idriche ma si può pensare che contenessero sul fondo uno strato d'acqua che fungeva come uno specchio che rifletteva la sacralità emanata dal tempio. Tornando alle gallerie, le cornici esistenti dove inizia la volta indicano che c'era un soffitto in legno decorato con rosoni a forma di fiore di loto aperto, come quelli che sono scolpiti sulle traverse in pietra che collegano le colonne. L'insieme del chiostro presenta una grande eleganza nelle forme e una rimarchevole cura nelle decorazioni che vanno dalle immagini di asceti in preghiera scolpite ai piedi delle colonne, e purtroppo erose dall'umidità che ha intaccato la pietra, ai delicati fregi che raffigurano lunghe file di apsara danzanti, ai ricchi motivi floreali che coprono le pareti. Smaglianti colori e polvere di oro davano un tempo a queste immagini un risalto stupefacente. La cosa non deve stupire. Il tempio era l'abitazione terrena del dio, era quindi giusto che in questo luogo la divinità trovasse sempre una offerta di fiori, di preghiere e di danze. Per rendere perenne nel tempo questa offerta l'uomo non poteva che immortalarla nella pietra. Qui si è già entro l'area sacra e nelle due biblioteche poste ai lati del chiostro dovevano trovarsi i paramenti che i celebranti indossavano per il rito. Brevi scale coperte portano alla galleria della seconda terrazza che misura 115 metri per 100 e che è a muro pieno sul lato esterno mentre verso il cortile, lungo le pareti coperte di figure di devata con elaborate acconciature, sontuosi abiti e ricche cinture e collane, si aprono finestre guarnite da colonnine. Sul lato ovest del cortile, su un basamento sorretto da corte colonne, sono collocate altre due biblioteche più piccole delle precedenti e che per la prossimità del santuario si pensa che potessero contenere i sacri testi e gli oggetti rituali. Al centro del cortile, lo sguardo è catturato dalla grandiosa mole del basamento quadrato di 60 metri di lato e 13 di altezza su cui poggia l'ultima terrazza. Dodici scale, con una ascesa quasi vertiginosa, portano alla galleria che collega i cinque prasat. Le scale del lato est raggiungono una pendenza del 70%. Ora sono state collocate due scale in legno che consentono un più agevole accesso Giunti al culmine non si può comunque restare delusi. La galleria è retta sul lato interno da colonne e sul lato esterno si aprono delle finestre a colonnette attraverso le quali lo sguardo spazia su tutto il panorama. Forse solo da qui si può cogliere la maestosa grandiosità di Angkor Vat e la perfetta geometria del suo piano costruttivo. Dalla galleria esterna partono quattro gallerie orientate sui punti cardinali che delimitano quattro bacini, simili a quelli del chiostro della prima terrazza, e la collegano alle quattro celle che si aprono nel prasat centrale che si leva per 42 metri raggiungendo così un'altezza di 65 metri sul livello del suolo. Il corpo centrale della cella fu murato dai bonzi con pareti sulle quali furono scolpite immagini del Buddha e oggi sono i quattro avancorpi che assolvono la funzione di santuario buddhista essendo stati rimossi anche i basamenti dei linga.
 
Il linguaggio dei bassorilievi
 
Si era detto che la galleria della prima terrazza era il limite oltre il quale i fedeli non potevano procedere, ma bisogna intendersi sul significato del termine "fedeli" nella antica società khmer. Il culto del sacro linga e il rituale del deva-raja non erano una forma di religiosità popolare ma erano il substrato religioso del potere imperiale. Il culto dei geni e degli spiriti, i Neak ta, era, prima del buddhismo del Theraveda, la sola religione del popolo e alle magnifiche processioni che si recavano ai templi in occasione della celebrazione dei sacri riti possiamo supporre che, oltre agli officianti e agli addetti al culto, partecipassero solo i membri degli ambienti di corte, brahmani e kshatriya, i principi alleati e gli appartenenti ai ceti socialmente e culturalmente più elevati: quello che oggi si chiamerebbe "the Establishment". D'altra parte lo stesso Ceu Ta-kuan, che pure era membro di una importante delegazione diplomatica inviata da Qubilai Khan, non ebbe accesso a questi riti e ce ne parla solo "per sentito dire".  Non si pensi quindi assolutamente alle masse di pellegrini che affollavano le nostre cattedrali e i santuari nel Medio Evo. Il linguaggio, anche quello delle immagini, doveva quindi essere adeguato al livello dei fedeli. Quando il corteo giungeva alla galleria dei bassorilievi e il sovrano e gli officianti varcavano le porte, gli altri restavano in attesa ed era a loro che il re parlava attraverso le immagini dei bassorilievi. Noti sono i temi sviluppati nelle sculture eseguite al tempo di Suryavarman II, e cioè quelle che ricoprono le pareti dell'ala ovest, di quella sud e del lato meridionale di quella est. Sono temi tratti dagli antichi poemi, dalle tradizioni e dalle più famose narrazioni mitologiche. Erano racconti che ogni persona si era sentito narrare infinite volte. Non potevano quindi avere alcun valore didattico o catechistico per quel tipo di fedeli. E' noto però che gli Khmer sapevano usare la religione per sostenere l'assetto del potere imperiale e non esitavano a derogare dai canoni religiosi per fare fronte a esigenze pratiche o a concreti interessi. Anche l'imperatore celebrava il rito del sacro linga non tanto per vera religiosità quanto per affermare la sacralità del suo potere e non sprecava il suo tempo in vuote ritualità. I bassorilievi dovevano perciò trasmettere a quei qualificati ospiti dei precisi messaggi, anche di carattere politico che pur se non di immediata comprensione visiva potevano sempre essere spiegati ed esplicitati da un capace ministro "della Reale Casa". Entrando dal lato ovest, sul lato sinistro, si trova la battaglia di Lanka, l'epica conclusione del Ramayana ove Rama sconfigge Ravana e ne abbatte il tirannico potere. Il messaggio è chiaro: il potere regale ha origine divina ed è basato sulla giustizia e sul diritto. Se qualcuno, come Ravana, esercita questo potere con protervia e spirito prevaricatore in dispregio delle stesse divinità, Vishnu, il benefico protettore dell'umanità, non esita a farsi uomo, scendere in terra, abbattere il tiranno e restaurare l'ordine universale. Nel sovrano khmer è posta una porzione di Vishnu stesso, il suo potere non può quindi che essere legittimo e gradito al Cielo. Sul lato opposto, a destra, il discorso si esplicita con la battaglia di Kuruksetra, dove i 5 fratelli Pandava sconfiggono i 100 Kaurava che li avevano con l'inganno privati del regno e costretti all' esilio. E' l'episodio centrale del Mahabharata che però qui è rappresentato non per celebrare la vittoria dei giusti sugli iniqui ma per nobilitare le origini della dinastia e per riaffermare i fondamenti del potere reale. Anche i Romani al tempo di Augusto sentirono la necessità di dar lustro alle loro origini e a Virgilio fu commissionata l'Eneide che narrava come il progenitore della stirpe romana fosse stato il più nobile dei guerrieri di Troia: Enea il simbolo vivente del valore guerriero e della pietas familiare. Analogamente i sovrani khmer affermavano che la loro stirpe traeva origine dai più valorosi e nobili principi dell'antichità: i fratelli Pandava di cui celebravano le gesta. Più importante ancora era però il rammentare gli insegnamenti che il saggio Bhisma, raffigurato nel bassorilievo morente su un letto di frecce, impartisce sui fondamenti stessi della regalità per dimostrare che il potere khmer si basava sui sacri principi sanciti nel Mahabharata. La prima scena dell'ala sud pare avere un carattere più celebrativo: Suryavarman vi appare nel fulgore del sovrano che siede sul trono e subito dopo è alla guida del suo possente esercito che marcia verso una nuova immancabile vittoria. Anche questo bassorilievo, lungo ben 90 metri, ha però un forte significato politico. Qualsiasi diritto se non si possiede la forza per farlo rispettare è inattivo. Dopo avere affermato i propri diritti a esercitare il potere universale, Suryavarman mette in mostra lo strumento che possiede per fare sì che tutti seguano la sua volontà: è un memento per chi già ha sentito la forza delle sue armate, è un avvertimento per chi vuole farne prova. Viene poi il pannello di 66 metri del giudizio dei morti con le immagini dei 32 inferni e dei 37 paradisi contemplati dalla tradizione induista. Prima di esaminare il bassorilievo è necessario rammentare le vicende di questa parte della galleria. Nel 1947, forse per un abbassamento del livello del terreno dovuto all'impoverimento di una falda acquifera sotterranea o per qualche cedimento strutturale della fila di colonne esterne, si produsse un rovinoso crollo che interessò buona parte del bassorilievo. Fu richiamato in servizio H.Marchal che restaurò bassorilievo e galleria rinforzandola con tiranti in cemento. In quella occasione, chiuse la volta con un soffitto in cemento, decorato con riquadri con l'immagine del fiore di loto largamente impiegata in altre parti di Angkor Vat. Il danno resta evidente ma il quadro è perfettamente leggibile. Si potrebbe pensare che con il giudizio dei morti, con i paradisi e gli inferni ci si sia immersi nelle profondità del mondo religioso khmer. E' vero solo in parte. Nel Mahabharata e nel Codice di Manu si dice che grazie al suo potere penale il re è assimilato a Yama, il dio che infligge i castighi, ma nel suo regno egli rende "inutile il potere di castigare di Yama" perché il suo giudizio è sempre equo e il timore per le pene che infligge è tale che nessuno osa peccare. Mostrando i tormenti degli inferni, il re rivolge un serio monito: essendo lui ancora più giusto ma anche più implacabile di Yama ognuno deve sapere che tutti i reati, principalmente quelli contro il potere che sono dei veri e propri sacrilegi, saranno puniti con pene terribili. Il re sa però anche premiare i buoni e ciò che promette ai sudditi fedeli è il meglio che possano sperare: godranno degli stessi beni di cui gode il sovrano. Per questa ragione i palazzi paradisiaci sono simili al suo palazzo Reale: sono sontuosi padiglioni che poggiano su basamenti sui cui sono scolpiti dei garuda in posizione di atlante, identici a quelli che appaiono sulla facciata della Terrazza degli Elefanti. Sul lato est, infine, si trova il famoso bassorilievo detto, con un bruttissimo termine, dello “zangolamento” o più esattamente della burrificazione del mare di latte. E' un notissimo mito vedico tratto dai Purana e narrato anche nel Ramayana e nel Mahabharata. La tradizione vuole che agli inizi dei tempi i deva e gli asura tirando alternativamente il corpo del serpente Vasuki che era avvolto intorno al monte Mandara abbiano fatto sgorgare dal mare di latte infiniti doni e soprattutto il liquido della immortalità, l'amrita, una versione indiana dell'ambrosia degli dei greci o della pianta dell' eterna giovinezza di Gilgamesh. Le tradizioni si devono rispettare, ma anche in questo caso se ne può dare una interpretazione che risponda ai fini politici del sovrano. L'acqua che cade dal cielo, se raccolta e usata per irrigare la terra, la rende fertile e così nasce il riso. L'uomo mangia il riso, vive e procrea. Anche i suoi figli raccoglieranno le acque che scendono dal cielo, coltiveranno il riso, lo mangeranno e avranno a loro volta dei figli. Così di generazione in generazione. L'acqua che scende dal cielo è quindi il vero liquido dell'immortalità, l'immortalità non del singolo individuo ma di tutto il genere umano. Il re ha la responsabilità che questo dono del cielo non vada disperso. Raccoglie quindi l'acqua nei baray dove la conserva fino ai periodi di siccità, poi la distribuisce attraverso una rete di canali che arrivano fino alla più piccola risaia. E' lui che rende possibile il miracolo di dare l'immortalità al genere umano grazie al dono del cielo, l'acqua che lui solo sa amministrare. La sua funzione è perciò sacra e la sua stessa persona ha connotati divini. L'immagine di Vishnu assiso sul Mandara è stranamente simile al ritratto di Suryavarman nei precedenti bassorilievi quando compare seduto sul trono o alla testa del suo esercito. Alla fine del secolo, Jayavarman VII ricorrerà alla stessa simbologia ma non per realizzare un bassorilievo bensì per tracciare la topografia di Angkor Thom. Questo pannello lungo una cinquantina di metri é l'ultimo che venne scolpito ai tempi di Suryavarman II. I muri del lato Nord dell'ala est e di tutta l'ala nord restarono vuoti fino a periodi più tardi quando furono completati con bassorilievi non databili e che molti studiosi giudicano privi di ispirazione e di scarso valore artistico.