Henri Mouhot, scrittore per caso

Questa breve nota biografica e le sintesi dei capitoli di "Voyages dans les Royaumes de Siam, de Cambodge et de Laos" con la descrizione di Angkor nel 1861, sono degli estratti del libro "Viaggio in Siam, Cambogia e Laos" in prossima pubblicazione presso la Casa Editrice Polaris.
 
 
La fonte più attendibile per conoscere la vita di Henri Mouhot è la nota biografica comparsa sul testo edito da Murray e scritta a L’Aia nel 1862 da J.Belinfante.
Henri Mouhot nacque il 15 maggio 1826 in una modesta famiglia di Montbeliard, nel Doubs, al confine con la Svizzera. Il padre era un funzionario dell’amministrazione provinciale e la madre un’insegnante. In Montbeliard viveva una coesa comunità di ugonotti e Henri e il fratello Charles furono educati secondo una rigida disciplina luterana. Terminati gli studi di filologia, all’età di diciotto anni, nel 1844 Henri partì per la Russia con l’intento di mantenersi insegnando il francese a San Pietroburgo. Era una scelta radicale e avventurosa per un diciottenne che aveva appena terminato gli studi e anche il suo biografo non ne spiega le ragioni. Sicuramente non si trattò di dissapori con la famiglia perché vedremo che, fino alla morte, Henri conservò un enorme affetto per il padre e il fratello. La madre era deceduta poco dopo la sua partenza da Montbeliard. Tale scelta forse era però meno avventurosa di quanto possa apparire ed è probabile che Henri sapesse di potere contare su solidi appoggi in Russia.
Montbeliard, infatti, nel XVIII secolo apparteneva ai duchi di Wurttemberg che qui vi avevano un castello in cui visse Sofia Dorotea di Wurttemberg, prima di diventare Imperatrice di Russia sposando, nel 1776, lo zar Paolo I. Il fratello più giovane di Sofia, il duca Alessandro, nacque a Montbeliard che era sede di un ramo minore della casata di Wurttemberg ed era inoltre un luogo frequentato da molte prestigiose figure politiche e culturali, legate al casato. La zarina visse fino al 1828 e sicuramente doveva avere mantenuto dei rapporti con i luoghi della sua giovinezza e nel suo seguito dovevano esserci delle persone, non ininfluenti, originarie di Montbeliard. Questo potrebbe spiegare perché il giovane Henri sia partito senza esitazioni per la Russia e abbia poi trascorso un lungo periodo a Voronezh sul Don che era stato il luogo di soggiorno preferito di Paolo I e della zarina.
“Iniziò come insegnante – scrive il suo biografo – ma, dopo la scoperta della dagherrotipia, divenne un artista”. Non sappiamo come apprese questa tecnica, ma se ne impadronì al punto tale che poté lasciare l’insegnamento e iniziare le sue peregrinazioni da un capo all’altro del vasto impero cogliendo immagini da San Pietroburgo a Sebastopoli, da Varsavia a Mosca. Questa attività gli procurò molte amicizie e notevoli benefici economici ma dovette interromperla nel 1854 quando Francia, Inghilterra e Regno di Sardegna intervennero in Crimea contro la Russia, in appoggio del sultano ottomano. Era la guerra e Henri Mouhot, in possesso di un passaporto francese, dovette abbandonare il paese.
Tornò in Francia, ma non si fermò a lungo. Nel 1855, con il fratello Charles che si era associato al suo lavoro di fotografo, viaggiò in Italia, Belgio e Germania per poi stabilirsi a L’Aia in Olanda, dove viveva una comunità protestante francofona di discendenti degli ugonotti fuggiti dalla Francia dopo la revoca dell’Editto di Nantes. Qui approfondirono la loro conoscenza delle nuove tecniche fotografiche e organizzarono un’esposizione dei loro lavori che poi portarono anche a Londra. Il legame fra i due fratelli si rinserrò ulteriormente quando si legarono a due sorelle, Ann e Jane. Charles si sposò con Ann e Charles fece altrettanto con Jane. Il biografo dice che erano due “English ladies, relatives of Mungo Park”. Mungo Park era un famoso esploratore scozzese che risalì il fiume Niger e vi trovò la morte nel 1806, ma questa lontana parentela non sembra avere minimamente influenzato Henri Mouhot che s’immerse invece negli studi delle scienze naturali, di ornitologia e conchiliologia, stabilendosi nel 1856 a Jersey.
L’isola di Jersey, nella Manica, è a diciasette miglia marine dalle coste della Francia e diventò dopo il 1848 il luogo di rifugio di molti esuli francesi. Arrivarono i proscritti, socialisti e democratici, dei moti popolari del 1848, dopo la sanguinosa repressione delle manifestazioni di Parigi; giunsero gli oppositori del 1849 dopo che la destra clericale e filomonarchica aveva ottenuto la maggioranza nelle elezioni del maggio, arrivarono anche tutti i fuoriusciti ed esuli di Italia, Polonia e Ungheria che avevano trovato rifugio in Francia e che erano stati espulsi dai governi della Destra e  da Luigi Napoleone che era diventato Presidente della Repubblica nel dicembre 1848. Giunsero infine gli oppositori di Napoleone III che si era proclamato imperatore nel 1851. Il più famoso era Victor Hugo arrivato dal Belgio nel agosto 1852 e che qui rimase fino al 31 ottobre 1856 quando fu espulso e dovette migrare nella vicina Guernesey da dove però mantenne i contatti con i fuoriusciti ed esuli di Jersey.
In questo clima maturarono le scelte di Henri Mouhot che proseguendo i suoi studi scoprì uno stimolante campo di ricerca nel libro "The Kingdom and People of Siam" di Sir James Bowring, pubblicato nel 1857. Nacque così il progetto – come lui stesso scrisse - di “esplorare i regni del Siam, della Cambogia e del Laos e inoltrarmi nelle terre dove vivono i gruppi tribali che abitano nel bacino del grande fiume Mekong.” La Royal Geographical and Zoological Societies di Londra approvò il progetto e lo aiutò nella sua attuazione, così il 27 aprile 1858 Henri Mouhot partì per Singapore e Bangkok. Cominciava così l’avventura che si sarebbe poi conclusa con la sua morte, a trentacinque anni, il 10 novembre 1861 in prossimità di Luang Prabang.
 
Chi era l’uomo Henri Mouhot?
Le note biografiche sono scarse e Henri Mouhot parla poco di se steso nel suo diario e nelle lettere mandate a familiari e amici. Racconta i suoi stati d’animo, le sue paure e le sue speranze ma non si perde in particolari sulla sua vita passata. Fa pochi accenni agli anni passati in Russia, non parla mai di Jersey e dei suoi studi, non fa il minimo cenno alla dagherrotipia e alla sua padronanza di questa tecnica. Non annota neppure i suoi compleanni né cita mai il nome della moglie, del padre o del fratello che pure dice di amare moltissimo. Non spende una parola su Napoleone III e il solo riferimento che fa alla situazione politica europea è quando scrive “La prima notizia che (l’abate Hestrest) mi diede fu che la Francia era in guerra con l'Austria, ed io neppure sapevo che ci fossero dei contrasti fra i due governi: da questa guerra sarebbe nata l'Italia!”
Henri Mouhot era il vero “volontario esule” che aveva per sempre lasciato la sua patria di nascita e le sue vicende politiche interne ma, proprio perché esule e praticamente apolide, conservava fortissimo in se il senso di appartenenza alla cultura francese.
Il passaporto francese gli serve per sfruttare le strade aperte dagli accordi stipulati da Montigny ma lui si sente francese soprattutto, e forse solo, perché è figlio della cultura francese: da Rousseau a Lamartine, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 al Positivismo di Saint-Simon. Usa con grande rispetto la parola “selvaggi” quando parla delle popolazioni autoctone e in questo è discepolo di Rousseau per il quale ogni uomo nasce buono e giusto, e se diventa ingiusto la causa è da ricercare nella società che ne corrompe l'originario stato di purezza. Quando parla del suo soggiorno presso i “selvaggi” Stieng scrive: “Il motto scritto sui nostri edifici pubblici nel 1848 (Liberté Egalité Fraternité) è qui, non ostante la pratica della schiavitù, la parola d’ordine degli Stieng e loro la mettono in pratica. Noi usiamo le parole, loro fanno i fatti.”  Vedendo i villaggi dei poveri montanari laotiani, arroccati su crinali inaccessibili, annota: “In altre parole, usano gli stessi sistemi degli animali selvatici per sfuggire ai loro nemici senza doverli combattere e così conservare la libertà e l’indipendenza che sono per loro, come per tutte le creature di Dio, il bene supremo.” Colpito dalle condizioni di vita dei contadini russi, scrisse nel 1854 un libro intitolato “Slavery in Russia” che non venne però mai pubblicato forse perché l’abolizione della schiavitù della gleba, tra il 1857 e il 1861, da parte dello Zar Alessandro II lo aveva reso non più attuale. Figlio del suo tempo, vede nel colonialismo uno strumento per superare l’arretratezza economica e sociale dei popoli che oggi chiamiamo del Terzo mondo ma, parlando della Cambogia, con molta chiarezza dice: “Se questo paese fosse amministrato con saggezza, cura, onestà e avendo lo sguardo volto agli interessi della gente che lavora, tutto cambierebbe con una meravigliosa rapidità.” Forse anticipando “il fardello dell’uomo bianco” di Kipling, ma non condividendone il pessimismo, sente il dovere di trasmettere i benefici della civiltà occidentale senza però disconoscere il valore delle culture autoctone. Parla con rispetto della medicina tradizionale e della sua farmacopea: “Bisogna tuttavia ammettere che sanno guarire, come per magia, tutta una serie di malattie, facendo uso di piante medicinali sconosciute in Europa e che pare siano dotate di grandi virtù.” E’ un fervente luterano e crede nel messaggio evangelico. Dice che “la visione della croce, soprattutto in questi lontani paesi, fa bene al cuore quanto l'incontro con un vecchio amico. Alla sua vista ci si sente sollevati e si sa che non si è più soli” ma non spende una parola per perorare la conversione degli autoctoni. Rispetta i missionari cattolici in quanto testimoni di fede e uomini pronti al sacrificio personale, ma non si sofferma mai sui battesimi o matrimoni celebrati. D’altra parte, anche solo per calcolo, non può non avere un buon rapporto con le missioni cattoliche perché sono le uniche strutture, dirette da Francesi, che può trovare lungo il suo cammino e sono anche i soli luoghi in cui sa di potere trovare aiuto e assistenza.
Non manifesta mai grandi ambizioni personali e volendo fare un ritratto di se stesso si paragona al “povero viaggiatore che, spesso al solo scopo di rendersi utile scoprendo un insetto o una pianta o un animale sconosciuto oppure per verificare la latitudine di un paese lontano, ha attraversato i mari, ha lasciato la sua famiglia e il suo benessere e ha sacrificato la propria salute e troppo spesso la sua vita.”
Non sopravaluta neppure l’importanza delle sue scoperte e si limita a dire che spera che “queste informazioni possano servire da punto di riferimento per altri esploratori che, dotati di più talento e meglio assecondati dai loro governi e dalle autorità siamesi, possano fare un abbondante raccolto là dove a noi è stato solo consentito di disboscare.”
Questo, dunque, era l’uomo Henri Mouhot, non il patriotico partigiano della “politica delle cannoniere” né il paladino del cristianesimo che è stato dipinto anche nelle più recenti riedizioni in lingua francese del testo. Era un uomo che, quando scrive “se dovessi perdere la vita in questa solitudine, lo preferirei a tutte le gioie e a tutti i rumorosi piaceri di questi salotti del mondo civilizzato dove l’uomo che pensa e che sente si trova così spesso solo”, possiamo ancora sentire vicinissimo a noi.